La vita sbagliata di Johan 1
PARTE 1
Mintaus è un piccolo paese situato tra due grandi fiumi che delimitano una vallata. A Ovest, durante i periodi di siccità, l’acqua del fiume Dunsdai è bassissima, quasi inesistente, così da poter essere facilmente attraversato. A Est invece, il fiume Obrak è imponente e carico d’acqua in ogni periodo dell’anno e nel villaggio si prega costantemente affinché la siccità non arrivi mai, poiché il passaggio che si viene a creare e che mette in comunicazione la piccola valle con il resto della pianura e i rispettivi abitanti, apre un varco per gli ostili villaggi vicini. Da sempre, infatti, Owen, il capo di Bransbik, e i suoi antenati prima di lui, attaccano e saccheggiano Mintaus approfittando dei periodi di secca del fiume Dunsdai.
A Mintaus si vive di cose semplici e la brama di ricchezza non ha mai sfiorato gli abitanti della valle tra i due fiumi. Si sopravvive grazie all’agricoltura e all’allevamento del bestiame e si hanno a disposizione poche, se non inesistenti, comodità. Il capo villaggio ha grandi responsabilità verso i suoi concittadini: è il portavoce di decisioni e avvenimenti importanti, ma non per questo vive nel lusso. La sua casa è di legno, come tante, con un tetto in paglia da cui, nei giorni di pioggia, cola acqua e l’unico pavimento è la terra, grezza e umida.
Questa storia inizia con la nascita della figlia di Barek, il capo del villaggio. Da anni, Barek e sua moglie Nintea, cercavano disperatamente di concepire un figlio così da avere, oltre che un erede, anche due braccia possenti in grado di aiutarli nei lavori più faticosi. Gli avevano persino già dato un nome: Johan.
Finalmente, dopo tanta attesa, Nintea rimase gravida; la notizia del lieto evento portò un’enorme gioia nei loro cuori ma, nove mesi dopo, al posto dell’atteso “Johan”, forte e possente, nacque invece una bimba gracile e delicata. E questo avrebbe significato soltanto una bocca in più da sfamare e pochissimo aiuto, se non per le faccende domestiche. Barek era troppo orgoglioso per accettare questa situazione e diffonderne quindi la notizia; all’epoca questo genere di cose poteva esser vista come una sconfitta personale, arrivando addirittura a mettere in discussione la carica pubblica dei genitori. La levatrice che si occupò del parto, fu pagata per mantenere il segreto cosicché, agli occhi di tutti, il capo villaggio era divenuto padre di un bel maschietto. La neonata fu quindi chiamata “Johan” e costretta a vivere una vita che non le apparteneva: fin da piccola i capelli le venivano rasati come quelli di un maschietto, veniva vestita come un bambino, i pochi giochi che aveva a disposizione erano per maschi e doveva anche aiutare suo padre nei campi.
Le persone del villaggio pensavano che Johan fosse un ragazzino molto particolare: magro, delicato, poco resistente alla fatica e sempre con la testa fra le nuvole, perso nel proprio mondo; nessuno del villaggio, però, aveva il coraggio di fare commenti a riguardo, essendo consapevole delle aspre conseguenze cui sarebbe andato incontro offendendo il capo del villaggio.
Johan non si ritrovava in quei modi sgraziati e nel suo aspetto mascolino.
Con l’età della pubertà il suo corpo iniziò a cambiare, così, per nascondere le forme nascenti, le fu imposto di indossare fasce tanto strette da lasciarle profondi segni sulla pelle.
La sera guardava le luci guizzanti del focolare e in cuor suo sognava che qualcuno la portasse via da lì, amandola e capendola a fondo, qualcuno che riuscisse a guardare oltre le sue fasciature, i suoi vestiti e i suoi corti capelli.
Si chiedeva spesso se avesse fatto la cosa giusta e se i suoi genitori l’amassero davvero.
Nonostante avesse sacrificato sé stessa e i propri bisogni per accontentare i suoi genitori, niente bastava mai a renderli fieri e felici di lei, niente di quello che faceva era mai abbastanza.
Una notte come tante, quieta, silenziosa e con poche stelle nel cielo, disturbata solamente dal crepitio della legna nel camino, Johan non riusciva a dormire, persa in chissà quali pensieri: era solo l’inizio di una lunga serie di notti passate insonni. Riusciva ad addormentarsi solo quando le prime luci dell’alba scalfivano le tenebre e lei era ormai sfinita. Notte dopo notte la attendeva un sonno agitato e pieno di incubi.
In una di queste notti inquiete, in cui fissava il soffitto e le crepe del muro che ormai conosceva a memoria per forma e posizione, un brusìo interruppe all’improvviso il silenzio quasi assordante che la circondava: delle urla provenienti dalle case vicine e poi dalla strada svegliarono i suoi genitori.
Suo padre spalancò gli occhi urlando: «Il fiume!». Uscì preoccupato con l’ascia in mano, malfermo con gli arti ancora intorpiditi dal sonno.
Nintea afferrò la figlia per un braccio e le impose di alzarsi con tutta fretta, le strinse ancor più le bende al corpo e la fece vestire.
«Madre mi fai male!» Si lamentò Johan.
«Taci!» Disse la madre con un tono che non ammetteva repliche.
A un certo punto la porta si spalancò violentemente, sbattendo contro le fredde mura e creando un forte boato. La sagoma del padre si stagliò sulla soglia, ma alle sue spalle un uomo più basso, con al seguito altri uomini, gli puntava un coltello alla carotide spintonandolo.
«Barek… Barek…» disse rigirando il coltello fra le mani, «non sono un codardo Barek, e tu lo sai. Voglio vederti in faccia mentre muori, non posso accoltellarti alle spalle» sogghignò.
Il vecchio capo villaggio sputò per terra:
«Owen… schifoso cane approfittatore. Potrei ucciderti anche a mani nude!».
«Uh… ma che brutte parole Barek… pensavo di esserti mancato…» replicò Owen.
Nessuna risposta arrivò dopo quell’affermazione; solo uno sguardo carico d’odio.
«Sono passato a trovarti non sei contento?».
«Cosa vuoi da noi Owen?».
«Mmm… subito al sodo e niente preliminari… siamo impazienti a quanto pare. Non hai perso il tuo caratterino vedo… Ebbene sono qui per prendermi tutti i vostri soldi e il vostro raccolto e vediamo… mmm… lasciarti senza dignità? Non so se rendo l’idea».
Barek rispose sprezzante:
«Non avrai niente da me. Non abbiamo soldi e i raccolti sono scarsi, come dovresti ben sapere, dal momento che hai oltrepassato il fiume, stiamo patendo la siccità».
Owen fece un cenno con la mano e gli altri uomini entrarono nella casa.
«Frugate ovunque!».
Nintea iniziò a urlare disperatamente mentre gli uomini di Owen la spintonavano a destra e sinistra rovesciando a terra le damigiane e rompendo le ceramiche e tutto quel che si trovavano davanti.
«Ti ho mai presentato mia figlia Aren?» chiese Owen.
Barek con sguardo stupito si girò e vide una ragazza guerriera vestita di tutto punto che stava spaccando a calci qualsiasi cosa trovasse.
«Tuo figlio non ha niente da dire?».
«Lui non c’entra niente con questa nostra faida e nemmeno il mio villaggio. Lasciaci in pace e non ci saranno conseguenze!».
Owen scoppiò in una fragorosa risata:
«Pensi ancora di poter fare qualcosa mentre io ti porto via tutto ciò che hai?».
Barek con gli occhi colmi di odio provò a reagire ai soprusi ma gli altri uomini lo bloccarono immediatamente facendolo inginocchiare e immobilizzandolo.
Owen si avvicinò a Johan che nel frattempo assisteva inorridita alla scena e che, per qualche motivo, non riusciva a staccare gli occhi dalla figlia del capo villaggio nemico.
«Non hai paura di morire?» chiese Owen avvicinando il suo grosso viso.
Johan non rispose, lo fissò invece negli occhi, senza timore: no, non aveva nessuna paura della morte, non aveva niente da perdere in questa vita; forse la morte era l’unica soluzione dinanzi a tutta quella ostilità gratuita.
«No eh… nessuna paura…», improvvisamente Owen assestò un pugno nello stomaco di Johan che si accovacciò senza però emettere alcun lamento.
«Mmm… non male… tuttavia non sai combattere. Il tuo vecchio non ti ha insegnato niente».
Lo squadrò ancora e poi ordinò:
«Aren tiralo su», rivolgendosi alla figlia la quale con violenza tirò su Johan che ancora sputava sangue per il colpo subito.
«Il mio prezzo è lui». Disse a un certo punto Owen indicando Johan. «Non sono tanti quelli in grado di guardare la morte in faccia, li conto a malapena sulle dita di una mano».
«Non puoi prenderlo» rispose a denti stretti Barek.
«Oh sì che posso. Ti sto dando la possibilità di scegliere. O lasci il tuo erede a me e sopravvivi con il tuo villaggio o vi uccido tutti e mi prendo ciò che è vostro».
Aren fissò Johan con sguardo di sfida stringendole il polso:
«Sei mio» sussurrò avvicinando le proprie labbra su quelle insanguinate di lei, per poi allontanarsi con una fragorosa risata.
Le uniche parole che Johan riuscì a pronunciare furono:
«Padre non mi lasciare ti prego».
Barek guardò suo figlio con uno sguardo che Johan non aveva mai visto prima e disse solamente:
«Rendimi fiero». Johan comprese che li avrebbe lasciati per sempre, abbassò gli occhi mentre lo portavano via: non voleva più vedere quei volti privi di amore.
«Forza, andiamo!» disse Owen spaccando con un calcio l’ultimo sgabello rimasto ancora intatto. Gli uomini uscirono dalla casa strattonando Johan e legandole le mani prima di metterla su un cavallo.
L’ultima cosa che vide furono i piccoli fuochi appiccati nel suo villaggio e la sua vecchia casa con la porta divelta da cui non uscì mai nessuno per dirgli addio.
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Complimenti per questo racconto interessante .