La vita sbagliata di Johan 5

PARTE 5

 

Johan incominciò a correre tra gli alberi per occuparsi della sua incombenza e far ritorno al vilaggio il prima possibile; dopo non molto però Johan si dovette fermare perché le bende, posizionate con troppa fretta, cominciavano a mollarsi. Se le sistemò con un nodo stretto sotto la maglietta e riprese a correre.
Nel frattempo, nascosta dietro un tronco, Aren attendeva pazientemente  il suo passaggio.

Ai confini del villaggio si trovava una casetta dissestata e malmessa, con piccole celle che ospitavano i prigionieri, tra cui il suo amico Imebec.
Johan aveva cominciato a conoscere le abitudini  della guardia posta all’ingresso perché le capitava spesso di tornare al villaggio verso quell’ora, e sapeva che di lì a poco il guardiano avrebbe fatto una pausa per mangiare.
Passato qualche minuto, come previsto, la postazione di guardia rimase scoperta e, con circospezione, Johan entrò: una ripida e buia scala a chiocciola portava nei sotterranei, la imboccò e iniziò la discesa.
Percorsi i numerosi scalini arrivò finalmente al termine della scala dove due piccole fiaccole brillavano. Prese in mano una delle due e iniziò a guardare dentro le piccole e sudice celle; erano davvero tanti i prigionieri lì sotto che la fissavano incuriositi; alcuni di loro sbattevano tazze e cucchiai sulle grate delle inferriate, altri ancora urlavano:

«Fammi uscire!».

«Ti pagherò molto se mi liberi!».

«Aiutami!».

Johan cercò di tapparsi le orecchie e proseguì.
A un certo punto, finalmente, trovò Imebec nella sua cella. Era seduto a terra con le spalle al muro e alzando di poco lo sguardo, riconoscendola, le disse a bassa voce:

«Perché sei qui?»

«Voglio la verità!», rispose con decisione Johan.

Imebec ridacchiò:

«La verità è relativa…».

«Cosa eri venuto a fare qui?» chiese lei.

L’uomo si alzò e avvicinandosi alle sbarre confessò:

«Ero qui per rubare provviste».

«Com’è possibile?» sussurrò stupita Johan.

«Non sei capo villaggio e non fai parte del Consiglio, non puoi capire» rispose lui.

Johan, infilando le braccia fra le grate, lo prese per il collo e lo fissò con rimorso:

«Io capisco fin troppo! Mi fidavo di te! Eri sempre con mio padre!».

«Tu non sai niente…» sbottò Imebec sputandole in faccia.

«Per avere la pace e la lealtà degli uomini dovevamo farlo o ci sarebbe stata una rivolta. Gli abitanti andavano sfamati».

«Avete dato la colpa a Owen e a suoi! Mi fate schifo!» rispose lei con disgusto.

Imebec la fissò ancora e Johan a due passi dal suo volto sporco non abbassò lo sguardo: i suoi occhi erano carichi di rimorso e rabbia come non li aveva mai avuti in tutta la sua vita.

«Potevate chiedere aiuto o barattare lavoro, cibo o abiti!» esclamò la ragazza.

«Hai tirato fuori le palle Johan?» rispose con una risata Imebec.

«Io le palle le ho sempre avute!» lo fulminò.

Imebec scosse la testa in segno di dissenso:

«Forse nei tuoi sogni. Nessuno ti ha mai detto cosa la gente pensava di te solo per via di tuo padre. Tuttavia lui non è qui ora».

«Ebbene? Parla!» chiese incuriosita.

«Sei un omuncolo debole e malriuscito. Un buono a nulla».

Johan strinse ulteriormente la presa sul suo collo facendolo quasi soffocare:

«Non me ne frega niente di quello che pensi tu né tantomento di quella stramaledetta gente!».

Imebec ridacchiò di nuovo e Johan gli tirò un pugnò in faccia facendolo cadere all’indietro senza emettere un gemito; seppur con il naso rotto e impiastrato di sangue rincarò la dose:

«Vai a fare il buon ragazzino viziato da un’altra parte con tutte le tue buone regole. Questo non è posto per te. Forse nessun posto è per te. Dovresti vedere il mondo così come vedi me adesso: sudicio e caotico».

«Zitto cane! Io mi fidavo…» sussurrò lei.

«Piangi Johan piangi! Tanto è l’unica cosa che sei capace di fare!».

D’improvviso, nel silenzio più assoluto una lama di spada si insinuò tra le sbarre a sfiorare il collo di Imebec.
Johan si voltò di scatto: era Aren, con gli occhi fiammanti di rabbia come non glieli aveva mai visti.

«Aren… posso spiegarti…» si giustificò Johan.

Imebec continuò sprezzante:

«Johan ti sei fatto la ragazza? Meno male che c’è lei ad aiutarti, lei si che ha le palle».

«Scusati con lui o morirai» disse Aren con tono minaccioso e senza esprimere emozione alcuna.

Lui si alzò di nuovo per guardarla:

«Ho solo detto la verità su di lui. Non mi scuserò per questo, solo i codardi lo fanno».

Aren infuriata non ribadì: ritirò la spada e lo trasse a sé con una mano, sbattendogli la testa contro la porta della cella di ferro e facendolo accasciare al suolo con un muto singhiozzo.
Aren guardò Johan con ancora il rosso della rabbia negli occhi che si mescolava con il verde delle sue pupille… ammutolita.

«Perdonami Aren… ti giuro che non volevo fare niente… dovevo solo parlargli…».

Inaspettatamente Aren la abbracciò forte senza darle modo di evitarla; durante quel contatto sgraziato, quasi rabbioso, qualche lacrima bagnò il viso di entrambe. Poi Aren baciò Johan sulla fronte, si discostò e disse solamente:

«Vieni» incamminandosi verso la scala a chiocciola.

Johan rimase un attimo a guardare Imebec a terra senza provare alcun rimorso o sentimento.

«Aren… aspetta!».

Lei si voltò a guardarla dall’alto, sui gradini della scala e con la spada a penzoloni.

«Devo parlarti…» sospirò Johan.

Facendo di no con il capo e con un lieve sorriso lei rispose:

«Mi parlerai quando sarai davvero pronto, ora usciamo da qui» le disse proseguendo la risalita.

Johan la fissò con il timore che sapesse già tutto.

Parte 6

 

 

 

 

 

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